Uno scrittore fantasma a Città di Castello
Lo scrittore fantasma di Philip Roth è uno dei libri di cui si è parlato durante gli appuntamenti dei Piccoli Maestri organizzati in occasione del festival Calibro, nell’affascinante cornice di Città di Castello. Nel report a seguire, Giovanni Pannacci racconta come è andata.
Lo scrittore fantasma è stato uno dei primi libri che mi è venuto in mente quando ho pensato a un romanzo da raccontare a ragazzi e ragazze poco più che adolescenti. I libri, però, sono un po’ come le persone incontrate nel passato e mai più riviste: finisce che col tempo ne conservi solo le caratteristiche più evidenti e nette, dimenticandone i contorni. Così quando ho riletto il romanzo sono emersi aspetti che mi hanno fatto dubitare della mia scelta, ma ormai la decisione era presa. E la sfida con me stesso pure.
Ho pensato di tirare fuori dalla storia di Roth tre o quattro temi che fossero immediatamente riconoscibili dagli studenti di una seconda liceo. Il talento e cosa si è disposti a fare per seguire i propri sogni; il conflitto con i genitori e, ovviamente, l’amore e i suoi sconquassi.
Come vi sentireste, ho detto ai ragazzi, se aveste la possibilità di trascorrere un paio di giorni a casa del vostro idolo, sportivo, cantante, attore che sia? Perché questo è esattamente quello che succede a un ragazzo poco più grande di voi che vuol fare lo scrittore e che passa due giorni con colui che considera il più grande romanziere americano, un vecchio burbero e solitario che vive isolato in una casa di campagna con sua moglie. Ho poi aggiunto che il giovane scrittore aveva appena rotto con la sua ragazza perché lei lo aveva trovato a letto con la sua migliore amica e aveva avuto un furibondo litigio col padre perché aveva scritto un racconto su una storia di famiglia che avrebbe dovuto rimanere fra le mura domestiche. Ho poi detto che a casa del vecchio scrittore c’era anche una giovane e bellissima studentessa di cui il ragazzo si innamora all’istante.
Avevo l’attenzione di tutti così, dopo avere spiegato che la storia era ambientata in America all’inizio degli anni cinquanta, ho sganciato la bomba e ho rivelato che dietro la giovane studentessa arrivata dall’Europa e sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, si celava in realtà Anna Frank.
Per un curioso e davvero per me imprevisto cortocircuito fra letteratura e realtà, i ragazzi hanno cominciato a chiedersi fra loro “Ma Anna Frank non era morta?”, incarnando perfettamente quel senso di sorpresa che prende il lettore del romanzo di Roth, quando gli viene rivelato che la Testimone per eccellenza del sacrificio ebraico è in realtà una brillante studentessa americana che scopre per caso che il suo diario è stato pubblicato in Olanda e si logora nel dubbio se rivelare o no di essere sopravvissuta, togliendo in questo modo al diario tutto il drammatico carico di testimonianza e monito rappresentato dal sacrificio della sua giovane autrice.
Ovviamente ho approfittato di questa momentanea incrinatura fra la realtà e l’ipotesi letteraria e non ho subito rivelato ai ragazzi che si trattava di un “what if”, ho anzi fatto in modo che ci arrivassero da soli, facendogli tirare i fili che via via avevo disseminato.
A quel punto ne è nata una interessantissima discussione che ha toccato numerosi temi, dalla passione a come l’affetto dei genitori possa a volte condizionare l’autonomia dei figli, alla spregiudicatezza degli scrittori e alle enormi possibilità che ci dà la scrittura di immaginare mondi (e modi) possibili e alternativi, a come un libro dovrebbe in qualche modo riuscire a cambiare almeno un po’ il nostro punto di vista sulle cose.
Alla fine dell’incontro, tutti in piedi davanti alla porta e con poca voglia di tornare in classe, mi hanno chiesto se avevo altri libri da consigliargli. Allora ho capito che io e Nathan Zuckerman avevamo colto nel segno.
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