Una nidiata di lettori
Pan non era poi tanto bello a vedersi. Aveva le zampe di un caprone, dalla testa gli spuntavano due corni, sempre di caprone, e nemmeno l’odore lasciava dubbi sulla sua integrità igienica. Ma era di nobili natali. Con buona probabilità era figlio di Ermes e della ninfa Driope, ed era tra le più antiche divinità olimpiche. Pare addirittura che, appena nato, avesse bevuto insieme a Zeus lo stesso latte, quello della capra Amaltea, a Creta. Quanti altri dèi avrebbero potuto godere di una poppata con vista sul mare?
Pan sapeva saltare, era veloce nella corsa, gli piaceva ballare, il più delle volte circondato da ninfe. Eppure? Eppure durante la Titanomachia (da un lato Crono e i Titani; dall’altro Zeus, tutti gli dèi dell’Olimpo, i Centauri, più una legione di giganti dalle cento braccia, chiamati Ecatònchiri) dimostrò doti belliche: gli bastò emettere un urlo così potente e lacerante da mettere in fuga Delfine, aiutando Zeus. (C’è da dire che Delfine, a discapito del suo nome, non era una creatura propriamente olimpica, e nemmeno celestiale. Delfine era un drago, e aveva il compito di custodire i tendini recisi di Zeus; tendini senza i quali, con tutta evidenza, Zeus non avrebbe potuto difendere sé stesso, i suoi, e l’Olimpo). Pare che le urla di Pan fossero così dilanianti che alle volte lui stesso si impauriva dei suoi emessi dalla propria bocca, e scappava via. Tra le altre cose, Pan si occupava di greggi, era un pastore. Aveva poi la supervisione dei boschi e delle selve. Fatto curioso: tra tutti gli dèi, Pan fu il solo a morire. Quasi duemila e cento anni fa, mentre regnava a Roma Tiberio.
Sì, ma perché Pan? Perché lui e non Apollo, Afrodite, lo stesso Zeus (Zeus insieme ai suoi tendini, intendo)? In questo strano dio, in questa figura piuttosto anomala del pantheon greco, ritroviamo una caratteristica interessante: è metà uomo e metà capra, come si diceva. Pan era l’anello di congiunzione, e uno dei più resistenti, tra il regno umano, quello divino e quello animale. Altra domanda: cosa faceva Esopo? Scriveva favole. E fu il primo a farlo, nella storia della letteratura occidentale. E di cosa scriveva Esopo? Di animali. Esopo visse tra il settimo e il sesto secolo prima dell’era cristiana. Era nato schiavo, ma con le parole era riuscito a svincolarsi dalle strette regole della società del tempo, e si era fatto strada. Insomma, un perfetto sconosciuto che, scrivendo, si era realizzato. Pare fosse etiope. Africano, allora.
Esopo intuì che se avesse messo nero su bianco le storie che forse aveva ascoltato da bambino, quando viveva nella sua Etiopia, qualcosa sarebbe cambiato. Ed è accaduto. Senza Esopo non avremmo avuto la forma racconto. E dal momento che duemila e settecento anni fa non esistevano i bar, e non era possibile farsi un bicchiere di whisky e parlare con il barista o con un amico (anche perché se Esopo era dell’Africa settentrionale, di certo beveva birra, o al massimo latte fermentato), ecco che gli antichi preferivano usare il regno animale come fondale per parlare di sé, dei propri problemi e, certo, delle proprie gioie. Esopo, di nuovo, ha avuto l’intuizione di scrivere di animali ma con la punta della penna rivolta alle questioni degli uomini. E l’ha fatto in prosa (all’epoca era poesia a farla da padrone, nella letteratura).
Abbiamo parlato di questo, e di altro, nell’incontro con i ragazzi del Liceo Classico Pilo Albertelli, a Roma, lo scorso sabato (sabato diciannove gennaio, per l’esattezza). Abbiamo parlato, sì, ma abbiamo anche letto. E poi abbiamo scritto. Riporto allora la riscrittura che le ragazze e i ragazzi hanno fatto di una favola di Esopo letta durante l’incontro. Ma non vi dico di quale favola si tratta. È stata scritta bene (in prima persona, dal punto di vista di un’aquila) e leggendola potete risalire alla fonte, all’originale, senza troppi problemi. Buona lettura.
Mentre stavo covando le mie uova ad un tratto mi prese fame. Volando trovai una squisita lepre che stava tranquilla, così cominciai a rincorrerla ma lei, impaurita, chiede aiuto ad uno scarafaggio, pensando che quest’ultimo mi potesse fermare. Ma visto che uno scarafaggio non potrebbe mai arrivare al mio livello, mangiai la lepre davanti ai suoi occhi. Per vendicare la morte della lepre lo scarafaggio mi impedì di continuare a covare le mie uova. Così decisi di chiedere aiuto a Giove, che mi porse il suo grembo per far nascere i miei aquilotti. A questo punto lo scarafaggio fece rotolare una palla di sterco sulla pancia del Padre degli Dèi che per ripulirsi scosse la tunica, facendo cadere le mie uova. Così decisi di non fare più uova in presenza di scarafaggi.
Giuseppe Martella
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