Un ritorno
A metà gennaio Giuseppe Martella e Vins Gallico sono stati accolti a Lanuvio dove hanno raccontato i viaggi e le avventure di Ulisse agli studenti di una scuola media. Siamo felici di pubblicare un report di questa esperienza, a cura di Giuseppe Martella.
Omero alla mano (Omero o chi per lui) i Proci erano centonove. I ragazzi che ho di fronte sono di meno (sessanta, forse settanta), ma sono più pericolosi. Meno diretti e minacciosi, ma di certo più pericolosi. Perché sanno cose. Sanno della guerra di Troia, conoscono l’ira di Achille (solo per averla letta o ascoltata, si capisce che per fortuna non l’hanno ancora vissuta). Conoscono mangiatori di Loto, e io provo a correggerli con un: Lotofagi. Conoscono l’episodio dell’accecamento di Polifemo. Qualcuno di loro (ma chi gli avrà dato la soffiata?) sa che a un certo punto della guerra tra Achei e Troiani, Enea carica padre e figlio, arriva da queste parti, sposa Lavinia e fonda Lavinium.
Io parlo, cerco di aggiungere qualcosa, loro alzano le braccia, piccoline e affusolate, che mi sembrano lance puntate contro di me. Se provo a opporre un: ‘Sì, ora parlo di Scilla, fatemi solo arrivare a…’ ecco che si fanno scudo con i loro sorrisi, e sono disarmato. Sono quaranta in meno dei Proci, ma incombono con le loro domande.
Però sì, poi qualcosa riesco a far passare: mi chiedono di leggere. Sono stufi delle mie parole e chiedono quelle di Omero. Ma chi era questo Omero, poi? «Un poeta!». «Non proprio,» rispondo, «Perché vedete, non sappiamo nemmeno se sia esistito. Troppe isole se ne contendono la paternità. Dice che per certo, se era una sola persona, era un aedo, o un rapsodo». Mi chiedono: «Uno che faceva rap?» In una certa misura sì. Omero, o chi per lui, era uno che cuciva ampie tele di parole, e le accostava.
«E un aedo?» Un aedo, uno che cantava, uno che ascoltava storie da altri, le prendeva, magari si accompagnava con uno strumento a corde. «La lira?» E sì. Sanno anche questo. E quindi non mi rimane che leggere. E qui è tutto un silenzio. Incrociano gambe e braccia (sono seduti per terra). Certi non resistono alla tentazione e parlano, forse di tutt’altro. Intanto continuo a leggere. Ho scelto il dodicesimo canto: ci sono Scilla, Cariddi, le Sirene. «Quelle belle?», chiede uno di loro. E mica tanto. Continuo a leggere e faccio notare che in nessun passaggio dell’Odissea Omero (o chi per lui) le descriva. Perché non è tanto il loro corpo ad attrarre, ma la loro voce. E non è tanto cosa dicono, non sono le parole, ma è davvero solo la voce che incanta, attira e lascia senza vita. E quindi sì, poco per volta si è ritornati alla dimensione dell’oralità. Un downgrade che non mi aspettavo affatto (stessa cosa è capitata a Vins, solo che lui stava nella biblioteca di Lanuvio, io nella palestra della scuola).
La voce, sì. Un pugno di pochi esseri (le Sirene venivano rappresentate parte pennute, parte donne) che con la loro voce per poco non mettevano in scacco Ulisse. Lo stesso Ulisse che (sì, aiutato da Atena) fa fuori oltre cento pretendenti. Ma è proprio qui che scatta la torsione: Ulisse è il lettore, le Sirene sono la storia. Ci si cade dentro, si rischia, spesso senza nemmeno avere tempo di accorgersene. Per quello che riguarda la tradizione, scritta, occidentale, succede da quanto? Da almeno duemila e settecento anni? Più o meno. Duemila e settecento anni di scrittura e di ascolto. Duemila e settecento anni in cui ogni viaggio tra le pagine riesce a diventare un ritorno. È successo a Lanuvio due settimane fa. È accaduto ancora adesso, mentre scrivevo queste parole.
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